Che fine hanno fatto i bambini?

Incontriamo Annalisa Cuzzocrea, autrice del libro: “Che fine hanno fatto i bambini”, edito da Piemme

Il titolo del libro della giornalista Annalisa Cuzzocrea “Che fine hanno fatto i bambini”, tratto da uno degli striscioni apparsi sui balconi durante il lockdown, mi ha colpito subito: quante volte abbiamo pensato la stessa cosa, nell’ultimo anno!

Di che cosa parla esattamente il libro, edito da Piemme? Attraverso interviste ad esperti, la giornalista cerca di capire perché, oggi, bambini e ragazzi sono per la società “invisibili”.

L’impulso ad indagare è nato dall’esperienza vissuta come mamma di due bambini, durante il lockdown generale, quando si è raggiunto il picco di questa invisibilità. Chi, infatti, si è messo nei loro panni? Chi si è chiesto cosa provassero, che entità avessero le privazioni a cui sono stati sottoposti, quali traumi ne potessero conseguire? Nel libro, il dialogo con psicologi, sociologi, demografi, scrittori, economisti la porta a dipanare concetti molto profondi, che tentano di dare risposta a questa domanda: è solo un problema politico oppure anche culturale? Scopriamo che il problema è complesso e di duplice natura: da un lato, famiglie sempre più sole ma anche sempre più concentrate sui figli, che faticano a lasciarli andare, dall’altro, uno Stato e una società sempre più deresponsabilizzati, in parte proprio perché considerano i figli come “bagaglio appresso” dei genitori, una sorta di appendice a carico solo delle famiglie, concetto che si chiarisce con la sociologa Chiara Saraceno e in diversi altri punti del libro. Si mettono anche in luce cambiamenti radicali della nostra società, come ad esempio l’assenza della “comunità educante”, di cui parla lo psicologo Matteo Lancini e del conseguente individualismo della società attuale. L’iperprotezione che mettiamo in atto nei confronti dei figli, ben espresso dalla psicologa Silvia Vegetti Finzi che parla di “plusmaterno”, sottolinea ancora una volta come le madri nel nostro Paese facciano fatica a distaccarsi dai figli, per tanti motivi. Così, la società si ritira e non si sente più in dovere di fornire servizi e accogliere i bisogni propri dell’infanzia.

E l’aspetto demografico? Anche quello è un indicatore importante: Alessandro Rosina scrive che la natalità “è l’indice di fiducia di una nazione nel futuro”. Cosa dovremmo quindi pensare, del nostro Paese, visto che le nascite dell’anno scorso sono al minimo di sempre? Ecco perché ho voluto incontrare Annalisa Cuzzocrea e presentarvi questo libro. La incontro purtroppo solo virtualmente, al telefono, e nasce questa chiacchierata che voglio condividere con tutte le nostre lettrici.

Tutto è partito dalla tua esperienza di mamma durante il lockdown…Il mio libro parte proprio da mia figlia, nelle prime righe c’è lei, con il suo disagio vissuto dopo il lockdown e il suo timore ad uscire di casa. Non bisogna mai perdere il punto di vista dei bambini. Avendone due, sono stati per me entrambi una grande risorsa per intraprendere questa indagine. Al di là del libro però, devo dire che ho cambiato la percezione di come sono visti e “non visti” i bambini e i ragazzi in Italia proprio da quando sono diventata madre. Soprattutto riflettendo sulla maternità ho fatto delle considerazioni che mi sono state utili per dipanare l’indagine. Un tempo le madri chiedevano meno a se stesse, facevano tanto lo stesso, ma non pretendevano di essere perfette. Adesso invece noi madri ci sentiamo e ci autodefiniamo mamme acrobate, chiedendo a noi stesse davvero troppo a volte, e così la pressione arriva sia da noi stesse che dall’esterno. Tutto per un senso di colpa strano che ci portiamo dietro: essere madri e realizzarci allo stesso tempo ci sembra a volte che tolga qualcosa, una volta al lavoro, una volta alla famiglia. E così per non togliere niente facciamo le acrobate.

I figli, quindi, come responsabilità delle sole madri? Questo concetto è molto importante, perché ci porta a capire uno dei motivi per cui gradualmente politica e società si sono deresponsabilizzate nei confronti dei bambini e dei loro bisogni. È un po’ come se aleggiasse sotto sotto il concetto che “Tanto se ne occupano le madri”. E così, come è accaduto durante il lockdown, chi doveva prendere decisioni importanti, dettate dall’emergenza, lo faceva pensando proprio che i figli fossero responsabilità delle famiglie, delle madri in primis. E da qui i bambini e i ragazzi diventano sempre più invisibili.

 

Sembra però un circolo vizioso…In effetti è complesso, e lo è, un circolo vizioso. La cura dei bambini è demandata solo a noi, tuttavia non si può negare che forse lo vogliamo anche un po’ noi. La psicologa Silvia Vegetti Finzi si sorprende che non ci sia stato un movimento più forte di protesta da parte delle famiglie. Perché non c’è stato? Perché noi non ci aspettiamo forse più nulla dallo Stato, non lo chiediamo più, e un po’ forse non lo vogliamo. Questi bambini, preziosi, sempre di meno, come confermano i dati demografici, arrivati tardi (per consentire la realizzazione professionale ed economica), tendiamo a tenerli un po’ chiusi, fatichiamo a lasciarli andare. La famiglia si chiude in se stessa e ha poca fiducia nella società. È proprio così che il problema visto dal punto di vista culturale si intreccia e si rincorre con il problema visto invece dal punto di vista politico e sociale.

Hai dialogato con tanti esperti, chi ti ha lasciato il messaggio più forte? È difficile rispondere a questa domanda. Per me è come se in ogni capitolo del libro ci fosse una scintilla, un’idea forte, un messaggio che ho cercato di raccontare e che definisce i diversi capitoli in cui ho diviso il libro. Per citarne uno, penso al concetto di “comunità educante” che mi ha trasmesso Matteo Lancini, psicologo, mettendone in luce l’assenza nella società attuale. La comunità educante era quel bellissimo contesto sociale in cui i figli trovavano ascolto e accoglienza in una comunità vivace e attiva attorno a loro: dai vicini di casa alle botteghe di quartiere, dai cortili alle strade sotto casa. Questo oggi non c’è più.

 Questi messaggi arrivano forti e chiari. Hai forse voluto dare un affettuoso “pizzicotto” ai lettori per dire “Apriamo gli occhi!”? Mi piace questo concetto del pizzicotto…Sì, un po’ è così, il libro deve portarci a riflettere e soprattutto a prendere maggiore consapevolezza perché è solo così che si possono gettare delle nuove basi.

“Povertà educativa”. Qual è la cosa che ti spaventa di più? La cosa che mi spaventa di più relativamente a questo concetto è che ci siano bambini che pur nascendo in questo Paese, si trovano nella regione o nel territorio “sbagliato”. Al Sud per esempio, dove non possono avere le stesse occasioni di crescita di altri bambini con un codice di avviamento postale più fortunato. Il Paese dovrebbe almeno dargli la possibilità, non uccidere la possibilità di potersi realizzare. La povertà educativa è molto aumentata, c’è un abbandono enorme della scuola, dati alla mano, per esempio in Puglia e in Campania, e la DAD ha peggiorato la situazione. Ecco, queste cose sono degli altri bisogni “non visti”. Lo slogan che ci sentiamo ripetere come un mantra da tanti anni, “più asili nido” va bene, ma quanti altri problemi ci sono?

Che riscontro hai avuto dopo l’uscita del libro? Se è vero che purtroppo su tanti aspetti pratici, a distanza di un anno dall’inizio della pandemia, siamo allo stesso punto, è vero anche però che l’unica cosa che è cambiata è la percezione della gente riguardo a tutto ciò… Se avessimo parlato di tutto questo un anno fa, saremmo stati bersaglio di una pioggia di critiche, per esempio, una tra tutte: “come vi viene in mente di pensare ai bambini quando la fascia debole degli anziani è in grave pericolo?”. Le abbiamo sentite queste obiezioni, ma si trattava di una falsa narrazione, non siamo gli uni contro gli altri, siamo i primi a voler mettere in sicurezza i nonni e le persone più esposte al virus, ma la narrazione assumeva tutt’altri toni. Per questo un po’ temevo per l’uscita del libro. Invece devo constatare che il percepito non è più così. Tanta gente mi scrive dicendomi che si è ritrovata nel libro, tante persone mi dicono che ho trovato le parole per esprimere ciò che loro pensavano o percepivano, ho insomma semplicemente dato delle risposte a delle domande latenti. Per me questa è la soddisfazione più grande.

Pensi che continuerai ad indagare sul tema? Anche se questo libro è stata una meravigliosa fatica, sono felice di aver colto un punto… e quindi non ti nego che la voglia di continuare ad indagare c’è! E chissà, con un po’ di tempo a disposizione, ascoltare bambini e ragazzi sarebbe bellissimo.