Cosa fare e non fare quando il bebè piange

A cura della Dottoressa Raffaella Damonte

Medico Chirurgo Pediatra – Direttore Sanitario Welcomed  

“E’ nata Allegra! Piange!” ecco il messaggio che mio padre inviò a parenti e amici quando nacque la mia secondogenita che aveva più l’aspetto di un’Erinni che quello di una dolce neonata. Nei primi cinque minuti di vita, il pianto è uno dei segnali che viene preso in considerazione per calcolare l’indice di Apgar, il punteggio attribuito ai parametri vitali del bambino. Se il bebè piange, vuol dire che ha cominciato a respirare in autonomia.

 

È importante notare che il pianto del neonato è il suo modo naturale di comunicare, poiché non è in grado di esprimere verbalmente le proprie esigenze. Col tempo i genitori imparano a decifrare questi segnali per rispondere ai suoi bisogni. Nelle prime 6 settimane il bimbo piange in media 2-3 ore al giorno, ma ogni bambino è diverso dall’altro e c’è senz’altro chi piange di più e chi meno. Il pianto, però, richiede sempre una risposta, una presenza. Ignorarlo, per non abituarlo “male”, è controproducente, perché correremmo il rischio di renderlo un bimbo poco comunicativo e un adulto insicuro.

Cosa vuole comunicarci un neonato quando piange? I motivi sono tanti: fame, stanchezza, sovrastimolazione, dolore addominale da colica gassosa, fastidio per il pannolino sporco. Spesso, prendersi cura di questi bisogni è sufficiente per calmarlo, ma a volte il pianto dura più a lungo e il genitore può sviluppare frustrazione e nervosismo per non essere in grado di soddisfare e comprendere le richieste del proprio bimbo.

In questi casi si può far ricorso ad alcune strategie, come portare il bambino a fare un giro nel passeggino, tenerlo appoggiato sul torace respirando lentamente, oppure fare un bagnetto caldo e massaggiargli successivamente la schiena.

Alcuni bambini invece hanno bisogno di meno stimoli: quelli di età pari o inferiore a 2 mesi possono stare bene avvolti in fasce, sdraiati sulla schiena nella culla con le luci fioche.

Se tutto ciò non bastasse e il livello di stress nei genitori tendesse ad aumentare, è fondamentale un supporto. Se possibile accettate un aiuto esterno, perché la solitudine può portare a compiere gesti impulsivi pericolosi come lo scuotimento.

La sindrome del bambino scosso indica una serie di sintomi neurologici da trauma encefalico conseguenti allo scuotimento del bambino. È considerata una forma di abuso sul neonato, anche se in realtà non si tratterebbe di veri e propri maltrattamenti perché nella maggior parte dei casi le intenzioni dei genitori non sono di recare danno al bambino ma di farlo smettere di piangere. Non dobbiamo sottovalutare che il 70% dei genitori ignora totalmente che scuotimento possa provocare gravi danni cerebrali ed è quindi l’esasperazione di genitori inconsapevoli e poco informati a spingere nella direzione di una “manovra consolatoria” errata.

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